Zoldo Alto, estate 2016
Premetto che sono per l’integrazione delle persone che arrivano in Italia per qualche motivo, che non sono razzista e che non mi opporrei mai affinché una persona che ha attraversato un mare su un gommone rischiando pesantemente la vita per sfuggire a una situazione impossibile possa ottenere un minimo giaciglio in una qualunque città d’Italia, compresa la mia.
Naturalmente, se il suo comportamento è accettabile.
Però mi oppongo, e fermamente, a come vengono trattati questi immigrati, a quale genere di vita sono costretti a fare, e mi spiego.
Quest’estate ero a Forno di Zoldo, un paesino situato in Val Zoldana, dove da oltre un lustro tengo concerti con i miei alunni, e, mentre vado a trascorrere una decina di minuti da un mio carissimo amico, il padrone della Tana de l’ors, verso le dieci del mattino, non posso fare a meno di notare una cosa che mi incuriosisce: alcune decine di persone di colore che, attorno ad un punto abbastanza definito, telefonano, parlottano tra loro e, con un’aria che non sembra delle più felici, forse si scambiano opinioni, continuano a telefonare, ma sempre con un’aria mesta, come fossero a disagio.
Torno sul posto il giorno dopo, in un altro orario, verso le 16, e noto la medesima situazione.
Faccio la stessa cosa alle 14 del giorno che segue il giorno dopo, e mi trovo di fronte all’ennesima, identica, situazione.
Ora, non è certo per far polemica, ma penso: sta gente che non fa altro che telefonare e scambiarsi qualche opinione, alla fine dei conti, non si rompe un po’ le scatole?
In una situazione del genere, mi romperei le scatole anch’io!... Ci pensate?
Stare ore ed ore a far nulla, ad aspettare una telefonata o a fare una telefonata. E nient’altro!!!
Ho capito che si sta molto meglio che sotto una bomba, o alle prese con un regime dittatoriale, ma prima o poi… anche tutto questo è troppo!
Mi spiegavano, in paese, che questi emigranti sono arrivati da lontano e hanno preso posto nel piccolo paese montano, aiutati da istituzioni religiose, e questo va benissimo, ma quando li vedi stanziare in questo modo, non puoi fare a meno di chiederti se non si poteva fare diverso, se non si poteva dare a questa gente qualche mansione per cui potesse sentirsi utile, non tanto per ricambiare un favore, che in effetti è solo un dovere di una nazione civile, ma almeno per occupare il tempo, magari guadagnando anche qualcosa da mandare ai parenti lasciati nelle case, nel loro paese d’origine.
Ecco, mi chiedo, non si potrebbe trovare una soluzione a questa situazione?
Per esempio, impiegarli in lavoretti utili che molti italiani non si sentono più di fare (ad esempio, tagliare l’erba di un prato, raccogliere rifiuti, ripulire parchi…) e dar loro, oltre all’alloggio ed al cibo, ovviamente gratis, un minimo di paga per soddisfare le loro esigenze quotidiane, o per mandare qualche soldo a casa?
Qualcuno nel paese mi ha risposto che non si può…
Ma come, chiedo, non si può?
La risposta è che se succede qualcosa vanno tutti in galera. Perché non sono assicurati, perché non è legale farli lavorare, perché…
Allora, mi è venuta un’idea:
lo Stato italiano non potrebbe fornire ad ogni immigrato un’assicurazione automatica che, appena viene ammesso nel nostro Paese, lo metta al sicuro di qualunque cosa possa capitargli, mentre attraversa la strada, quando gli viene una malattia, se lavora, ecc.?
Una specie di assicurazione del capofamiglia, della quale può usufruire in ogni situazione.
In questo modo, forse, molti di questi ragazzi che popolano il nostro Paese potrebbero distrarsi in altro modo, potrebbero sentirsi utili, avrebbero la possibilità di guadagnare anche qualcosa, vivendo forse l’attesa di tornare al proprio paese con un atteggiamento più sereno, più felice.
Ed evitando, alcune volte, di incorrere in brutti pensieri…
Forse sbaglio clamorosamente. Forse non è così.
Ma voi, cosa ne pensate?
Pier Giacomo Zauli